Venimmo, vedemmo e lo recensimmo: Ghostwire Tokyo

ghostwire tokyo recensione copertina

Ghostwire: Tokyo è un titolo con un grande cuore che sprizza stile da tutti i pori, ma per qualche oscuro motivo è stato accolto freddamente dalla critica, come del resto anche i precedenti lavori di Tango Gameworks, ovvero gli ottimi due Evil Within.

Eppure, nonostante l’evidente amore messo nei suoi giochi, Tango Gameworks non la spunta mai, neanche con Ghostwire Tokyo che ha ricevuto un’accoglienza piuttosto tiepida dalla critica specializzata. Una sorta di Ghostbusters in salsa giapponese con un’ambientazione suggestiva e un design di gran stile, Ghostwire Tokyo mostra come si possa ancora provare a fare qualcosa di originale nel folle mondo degli AAA.

Volete scoprire come se la cava? Allora continuate la lettura della nostra fantasmagorica recensione del gioco, disponibile su PS5 e PC (via Steam).

Provato su PC

PS4
single player

Who you gonna ko-ru?

Se dovessi analizzare Ghostwire Toyko nel suo insieme, non esiterei un secondo a dire che si tratta di un ottimo prodotto. Tutte le sue caratteristiche funzionano bene e, sebbene non siano perfette, riescono a dare un’identità al gioco senza farlo risultare troppo derivativo, al netto dell’utilizzo di una formula open world classica, composta da side quest e collezionabili.

Essendo un gamer della vecchia scuola, per me un gioco deve fare una cosa: intrattenere. Ghostwire Tokyo intrattiene? Assolutamente sì.

Intrattiene con la sua Tokyo deserta, dove tutti gli abitanti si sono smaterializzati (si trovano solo i loro indumenti e gli effetti personali sparsi a terra) e dove pullulano fantasmi. Intrattiene con il suo combat system che da una parte è semplicistico, dall’altra però funziona e dà soddisfazione, d’altronde in quanti altri giochi in prima persona è possibile esorcizzare fantasmi con la sola imposizione delle mani, stile Mago Oronzo?

Intrattiene con la sua storia, completamente folle e che strizza l’occhio a Ghostbusters (KK è un po’ una sorta di Peter Venkman alla giapponese) e che si mantiene buona fino alla fine. Intrattiene con la fantastica chimica tra i due personaggi principali e spesso anche con delle side quest simpatiche, date da fantasmi che hanno molta più personalità dei personaggiottini colorati e pazzerelli che ci vengono vomitati sulla testa in continuazione da Ubisoft, stile il Cheddar Goblin di Mandy.

Certo, la sua magia non cattura tutti e se siete già annoiati dalla pletora di open world disponibili sul mercato, probabilmente Ghostwire Tokyo non vi farà cambiare idea. Il suo schema non ha niente di rivoluzionario, ma grazie al suo design frizzante riesce a risultare molto godibile.

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I protagonisti della vicenda sono il giovane Akito e il più navigato detective del paranormale KK. Dopo un incidente in moto, Akito si trova posseduto dallo spirito di KK che gli conferirà dei poteri per combattere i fantasmi della Tokyo disabitata, nel tentativo di fermare il cattivone di turno e ritrovare la sorella ricoverata in ospedale. La trama per quanto decisamente semplice e lineare, funziona molto bene, forse proprio per la sua leggerezza e la sua assenza di grosse pretese. 

Il gioco inoltre non si prende troppo sul serio: sono varie le situazioni comiche nelle quali ci troveremo e gli scambi tra Akito e KK sono sempre spassosi. La possibilità di girare per Shibuya e altri quartieri di Tokyo in prima persona è già di per sé irresistibile, specialmente se avete anche un minimo di interesse o fascino verso il Giappone. L’esplorazione avviene sia in orizzontale, sia in verticale, grazie alla possibilità di aggrapparsi a dei Tengu (spiriti giapponesi volanti) con un rampino spirituale e raggiungere così i tetti dei palazzi.

Graficamente il gioco tiene molto bene, specialmente con l’RTX attivo che permette di godere al massimo della Shibuya notturna e del suo concerto di neon. Chiaro che non siamo ai livelli di altre produzioni AAA, ma se avete un buon PC o siete fortunati possessori di una PS5, il colpo d’occhio sarà comunque buono.

Esplorando il ventre spiritico

L’esplorazione della mappa ha un non so che di rilassante. Magari potete sentire i pensieri di un gatto nel vicoletto, poi aiutare un qualche spirito a tornare nell’aldilà, esorcizzare degli Yokai e arrampicarvi sui tetti per osservare l’infinita Tokyo che si staglia davanti ai vostri occhi. La sensazione di essere rimasti gli unici umani in tutta la città è stata resa benissimo, e sebbene l’interazione con l’ambiente sia ridotta all’osso, più di una volta ho rimesso su il gioco anche solo per esplorare delle strade nuove.

Le missioni della storia principale sono ben costruite e hanno tutte un ritmo serrato, diviso tra esplorazione, narrazione e combattimenti. Trattandosi di un open world, nella mappa di medie dimensioni ci sarà una buona quantità di side quest che ci verranno date da spiriti rimasti attaccati alla loro vita terrena e che potremo aiutare ad ascendere.

Le side quest variano dall’esoricizzare un palazzo infestato, a trovare della carta igienica per uno spirito incontinente. Tutte le side quest comportano interazioni tra Akito e KK, con una ottima chimica tra i due personaggi e che spesso ci porta a scoprirne di più sulla lore degli spiriti giapponesi e sulla stessa Tokyo.

Sebbene non brillino per varietà (comportano sempre o combattimenti o esplorazione) ho trovato le side quest ben scritte e assolutamente in linea con l’ambientazione di gioco. In generale anche qui il pacing è sempre in grado di tenere le mani incollate al pad, grazie ad un design delle quest snello e digeribile.

Oltre alle side quest, potremmo immagazzinare gli spiriti perduti e poi depositarli in dei telefoni pubblici (follia, lo so), in modo da ottenere soldini e punti esperienza. I soldi ci serviranno per comprare oggetti curativi, talismani e munizioni per l’arco, andando nei conbini gestiti da… gatti fantasma. I punti esperienza invece andranno investiti in uno skill tree abbastanza elementare, in modo da aumentare le capacità di Akito e KK.  

Sparse per la mappa ci saranno Torii (i classici portali rossi utilizzati nel mondo shinto per suddividere lo spazio umano da quello sacro) da esorcizzare, in modo da liberare nuove parti di Shibuya dalla nebbia e renderle esplorabili, sbloccando side quest e altri luoghi caratteristici.

Non mancano ovviamente tutta una serie di oggetti collezionabili inerenti al folklore giapponese, con una dettagliata spiegazione visibile nell’inventario.  Alcuni di questi si possono vendere agli avidi gattoni in bancarelle speciali, per ottenere ricompense particolari. Ora, chiaro che il collectathon potrebbe far storcere il naso a molti, ma agli appassionati di folklore giapponese potrebbe dare quella spinta in più a completare il gioco al 100%.

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Gosutobasutaru!

Quando si tratta di menare le mani, Akito e il suo ospite KK sfoggeranno magie da ninja, permettendoci di scegliere tra Vento, Acqua e Fuoco. La sua forte componente FPS è stata ben realizzata: i combattimenti risultano soddisfacenti nella loro estrema semplicità. Ora, non aspettatevi niente di accomunabile a un FPS di stampo occidentale, ma comunque siamo su livelli accettabili.

La maggior parte dei nemici tenterà di colpirci con attacchi ravvicinati, altri invece faranno un largo uso di proiettili. Avremo a disposizione la guardia che se attivata al momento giusto, può respingere gli attacchi nemici senza farci subire danni. All’inizio del gioco i tre attacchi elementali sembreranno tutti uguali, ma potenziandoli e andando avanti nelle aree più avanzate della mappa, si comincerà a fare un po’ di distinzione. L’Aria è ottima per gli attacchi da lontano, l’Acqua è utilissima per spazzare via i gruppi di nemici che ci attaccano in rush, mentre il Fuoco, quando potenziato, permette di bucare le difese nemiche.

A questi attacchi si aggiungono i talismani che danno un minimo di profondità tattica ai combattimenti, specialmente a livello “Difficile”, dove bastano due sganassoni per mandare il buon Akito al tappeto. Alcuni talismani permettono di bloccare i nemici, altri invece di scoprire i loro nuclei, quindi sono fondamentali per combattere contro i mostrazzi più fetenti.

Quando si viene feriti è possibile usare gli oggetti curativi (venduti dai gatti o trovati per la mappa) per ripristinare l’energia e in alcuni casi attivare dei booster. Adesso, sul combattimento è chiaro che si poteva fare qualcosa di più, magari per sfruttare al meglio le abilità di Akito e KK. La strategia per abbattere i nemici è sempre la stessa, occorre colpirli nello stesso punto (sul torace) per poter mettere in mostra il loro nucleo e distruggerlo con una coreografica e soddisfacente mossa.

Al di là di della loro eccessiva semplicità, i combattimenti funzionano specialmente quando il gioco ci manda contro ondate di mostri, tra i quali anche quelli più potenti. I movimenti delle mani di Akito, gli effetti delle magie e il sonoro sono stati realizzati ottimamente, cosa che contribuisce a dare un certo tono esplosivo ad un combat system ridotto all’osso.

Ogni tanto saremo costretti a muoverci furtivamente, ma fortunatamente queste sessioni sono limitate a poche missioni della storia e comunque nulla che determini il Game Over automatico quando si viene scoperti. Nel gioco avremo anche a che fare con boss fight ben diversificate tra loro e che pongono il giocatore davanti a sfide molteplici, inoltre sono ben collegate alla storia principale, quindi assumono anche un senso logico all’interno della narrativa senza risultare fuori posto.

Quando qualcuno ti chiede se sei un horror…

Bene, ma la parte horror? La parte horror è scarna, ma d’altronde questo era evidente anche dai trailer, infatti c’è poco da stupirsi. Il cambio di registro però è da apprezzare, in quanto di solito i giochi con i fantasmi e i mostri giapponesi sono sempre le solite solfe: corridoi di vecchie case dove ti giri all’improvviso e vedi la faccia deforme di un fantasma coi capelli lunghi. Già visto, già fatto.

Invece Ghostwire Tokyo prende i suoi fantasmi e li adatta ad un contesto più scanzonato, con un design grafico assolutamente spettacolare che strizza l’occhio proprio ai neon e ai colori della Tokyo notturna. La modernità si unisce al folklore antico in modo impeccabile, con i fantasmi vestiti da impiegati, da addetti alle vendite e da studenti, perché effettivamente adesso sono loro gli spiriti della città e non più quelli di samurai senza testa o inquietanti geisha.

Girare per la città, scoprirne i luoghi caratteristici, aiutare i fantasmi e trovare informazioni sul folklore ci rende quasi dei turisti virtuali, in una Tokyo infestata e deserta. Il mondo di gioco, i combattimenti, la storia e la fantastica chimica tra i due protagonisti, rendono Ghostwire Tokyo un prodotto che si regge benissimo sulle sue gambe e se ne può stare a testa alta davanti a tanti altri giochi ben più blasonati.

A chi consigliamo Ghostwire Tokyo?

Come avrete letto, personalmente ho gradito molto Ghostwire Tokyo, forse per il mio innegabile amore per gli underdog… o in questo caso dovrei dire undertango. Mi associo però ad altri critici ben più capaci di me, nel dire che probabilmente il vero potenziale di questo titolo sboccerà in un possibile sequel che mi auguro davvero venga fatto.

Ora, Ghostwire Tokyo non è un capolavoro e non deve esserlo. È un buon gioco che sa intrattenere e divertire, ma come molti prodotti giapponesi non è un gioco per tutti, quanto più per un titolo ideale per chi cerca qualcosa di originale e, come ho già sottolineato precedente, ha ovviamente un certo interesse per il folklore nipponico.

Un avviso giusto per gli amanti degli FPS più oltranzisti e per  i fan dei survival horror: lasciate perdere il titolo, perché rimarrete profondamente delusi. Mi azzardo a fare una previsione: probabilmente tra qualche anno Ghostwire Tokyo verrà citato tra quelle gemme un po’ dimenticate del gaming e che solo i veri appassionati andranno a recuperare. Lo definirei quasi un prodotto di “nicchia”, un po’ come quella birra stramba che si trova in alcune birrerie o pub e che incuriosisce magari chi vuole provare qualcosa di nuovo.

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